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giovedì, 21 Novembre 2024
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L’anziano che sente bene conserva la mente lucida

Con il trascorrere degli anni diminuisce la capacità uditiva, questo è risaputo. Le sempre più numerose prove scientifiche della correlazione tra ipoacusia e malattie degenerative negli anziani, però, stanno aprendo una nuova frontiera nella medicina come nelle tecnologia. Nel mondo, 360 milioni di persone sono affette da sordità (328 milioni gli adulti; 32 milioni i bambini). L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) stima che 36 milioni di individui soffrano di deficit cognitivi e demenza ed entro il 2050 diventeranno più di 100 milioni. Interventi in grado di ritardare anche di un solo anno l’esordio della demenza come anche la sua progressione, possono incidere significativamente sulla prevalenza (numero di casi presenti in assoluto) di questa malattia.

La giornata dell’udito

Nella Giornata mondiale dell’udito, celebrata il 3 marzo scorso, l’Oms ha rilanciato la necessità di programmi nazionali non solo di screening e di offerta di servizi (compresi apparecchi acustici e riabilitazione), ma anche di informazione perché aumenti la consapevolezza nella popolazione. «In studi recenti l’équipe del professor Frank Lin, della Johns Hopkins University di Baltimora, negli Stati Uniti – sottolinea il professor Alessandro Martini, direttore del reparto di Otochirurgia dell’Azienda ospedaliera Università di Padova – ha calcolato che un’ipoacusia di grado moderato-severo è in grado di aumentare fino a 5 volte il rischio di sviluppare demenza in epoche successive. È una conferma della ricerca pionieristica da noi svolta nel 2001 sulla qualità della vita nell’anziano nel Veneto, da cui è risultato chiaramente che l’invecchiamento uditivo è collegato con un aumento di depressione e di deficit cognitivo. Oggi il problema è esploso».

I meccanismi che legano l’ipocusia con il decadimento cognitivo

Quali sono i meccanismi che possono collegare l’ipoacusia a una forma di decadimento cognitivo? Sono state fatte diverse ipotesi. La più ovvia riguarda l’esistenza di un processo fisiologico comune che contribuisce sia all’ipoacusia, sia al declino cognitivo. Un’altra possibilità è legata a quello che gli esperti chiamano «cognitive load»: cioè lo stress esercitato sul cervello dal continuo sforzo di comprensione dovuto a un deficit uditivo. «Il maggiore sfruttamento ed esaurimento delle riserve neuronali e cognitive per controbilanciare la perdita uditiva – spiega il professor Giancarlo Cianfrone, ordinario di Audiologia alla Sapienza di Roma – farebbe venire meno queste risorse e il loro depauperamento sicuramente è una delle chiavi interpretative di alcune malattie neurodegenerative come l’Alzheimer». Ma non solo. Un’altra ipotesi considera come la perdita di udito possa modificare la struttura del cervello, contribuendo così allo sviluppo di problemi cognitivi. Infine, sembra possibile che anche l’isolamento sociale, a cui spesso l’ipoacusia costringe, giochi un ruolo nel favorire lo sviluppo di questi disturbi. «La situazione è un po’ nuova, nel senso che non ci si era mai soffermati sull’ipoacusia come fattore di rischio per le malattie neurodegenerative – aggiunge il professor Cianfrone -. Abbiamo sempre detto che l’ipoacusia è un fattore di rischio per il decadimento cognitivo in generale e questo è abbastanza ovvio perché vengono meno le informazioni più importanti dall’esterno».

Come fare prevenzione

Con l’invecchiamento della popolazione a livello mondiale, dunque, la necessità di prevenire, ritardare e invertire il declino funzionale degli anziani diventa ancora più urgente. Oltre alla diffusione degli screening come misura preventiva , attraverso studi scientifici si sta cercando di verificare l’efficacia del recupero della funzione uditiva – e quindi i possibili effetti su deficit cognitivi ed eventuali malattie neurodegenerative – sia attraverso protesi di tipo tradizionale sia con impianti cocleari. «Abbiamo fatto una serie di studi sulla protesizzazione nell’anziano – racconta Martini – e abbiamo visto che anche in pochi mesi ci sono netti miglioramenti sia con le protesi acustiche sia con l’impianto cocleare».
In Francia, l’équipe di Isabelle Mosniere, del gruppo ospedaliero pubblico Ap-Hp Pitié-Salpetrière, ha appena pubblicato sulla rivista Jama Otolaryngology – Head & Neck Surgery i risultati di uno studio condotto in 10 centri francesi su 94 pazienti tra 65 e 85 anni con perdita di udito profonda, che sono stati sottoposti a impianto cocleare. Già dopo sei mesi, i test hanno dimostrato un miglioramento significativo nella percezione del linguaggio e nelle capacità cognitive dei pazienti e un’influenza positiva sulla attività sociale e sulla qualità di vita. «I dati sembrerebbero abbastanza consistenti sul fatto che eseguendo l’impianto su un soggetto si ha un rallentamento del deficit cognitivo – ribadisce Martini -. Se ciò fosse confermato, avrebbe dei risvolti enormi a livello sanitario, dati i costi molto alti dei pazienti affetti da demenza». L’impianto cocleare però è indicato solo per le sordità gravi o profonde e riguarda quindi il 5-8% dei pazienti. «In Europa, l’Italia è un fanalino di coda – dice Cianfrone – . Secondo recenti indagini, solo un 16% della popolazione che avrebbe bisogno di una correzione protesica di fatto si avvia a questo tipo di rimedio».

di Ruggiero Corcella

Fonte: corriere.it

gabriele delosahttps://www.audioprotesi.org
CEO Founder - Audioprotesisti.org

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